La musicale vita dei colori sulla soglia del sogno
Allieva del pittore Vittorio Rorato e della maestra d’arte Laura Zerbin, Clara La Montanara (San Donà di Piave, 1969) ha intonato presto un canto libero e liberatorio, gioioso, personalissimo, in cui oggetti e colore convivono in un’atmosfera irreale, ora abbozzata e suggerita, ora affermata o addirittura “urlata” in un linguaggio “altro”: non verbale, né figurativo, bensì cromatico.
Arte, visione, materia sono i tre piani che si distinguono e si confondono sulle sue tele, ora con ironia, ora con incantata meraviglia.
L’artista veneta accoglie con calviniana leggerezza il dono della sua arte e veste con umiltà e quasi stupita il ruolo di mediatrice tra il proprio vissuto, la “materialità” del mestiere pittorico e la creatività che la pervade.
Essa ricrea una suggestione onirica non mediata da quella “grammatica del sogno” che costituì la fortuna di surrealisti o pseudo-surrealisti, ricreata, però, il più delle volte artificialmente e con una lucidità colta di psicoanalisi che toglie spontaneità, o con la mera finalità di stupire e scandalizzare.
Molto più istintivo e “innocente” è l’approccio di Clara La Montanara, il cui mondo non è quello solitamente inteso come onirico, anche se vi partecipa, se non altro per l’uso frequente della tecnica del collage, che già per Freud corrisponde ad uno dei poteri del sogno, e che sorprende e sospende oggetti e materia pittorica in un fluttuante scenario da illusione ipnagogica.
Il sogno è qui intravisto, non organizzato dalla logica “diurna” in simboli o narrato attraverso una figuratività rassicurante ma inadeguata, né sintetizzato nei segni spigolosi di un esoterico astrattismo, ma intuito mediante l’abbozzo di “cose leggere e vaganti” di sabiana memoria: soffi, spume di colore, luci riflesse, tracce di volo nelle nuvole, o semplicemente “segni” di anime impressi sull’ideale pellicola fotografica della tela.
Ogni opera abita una sorta di soglia del sogno, un ingenuo, fresco dormiveglia in cui il colore è vago e allude a visioni che non si fanno premonitrici, restando leggere, galleggianti su un cielo azzurro o nero (“imbronciato”, dice l’artista) che, come un liquido amniotico, accoglie colori “fetali”, primi abbozzi di una forma di cui non si ha fretta di fruire immediatamente coi propri sensi, e che invece si impara a vivere come un’esperienza fuori dal tempo, ad ascoltare come un messaggio che viene da lontano...
I colori scoppiano impulsivamente in un “big bang” di materia o sfumano ritrosi e quasi sovrappensiero.
uardiamo questi quadri e pensiamo che la vita sarà dolce e leggera finché vivranno i colori che la trasfigurano in quella loro liricità essenziale che si fa musica dell’anima.
L. M. Kalamian
(Venezia - luglio 2008).